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Ansia e panico: cause psicologiche

Ansia e panico: cause psicologiche

Chi soffre di panico molto spesso è colto da svariate fobie che non riesce a gestire: uscire da soli da casa, ma anche stare soli in casa risulta essere unimpresa attraversare uno spazio aperto, ma anche stare in uno spazio ristretto come un ascensore, oppure anche utilizzare mezzi di trasporto come autobus e macchina può causare un attacco di panico. La descrizione delle diverse paure che attanagliano lindividuo è vasto ma qual è la causa?

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Cosa si teme realmente? Le cause che si nascondono dietro a questo modo di sentirsi, è bene ricordarlo, non sono mai riconducibili a fatti obbiettivi o a dati concreti, bensì a motivazioni psicologiche molto profonde. Sembrerebbe che chi ha paura di tutto teme ciò che esterno, e che è avvertito come minaccioso, ma questo è frutto di una proiezione: avviene cioè che si porti sull’esterno, al di fuori di se stessi, la causa della propria paura. Succede allora che il cliente che si rivolge allo psicologo sembra chiedere una normalizzazione del proprio corpo. Esso è diventato portatore di disagio, di negatività; come qualcosa da correggere attraverso una indagine psicologica o una tecnica di rilassamento.

Le domande che vengono fatte più frequentemente da questo tipo di clienti sono riassumibili in questo interrogativo: "Lei crede che guarirò completamente dagli attacchi di ansia e di panico?". È un quesito interessante, che la dice lunga sulla rappresentazione che l’individuo si è creato su questi cosiddetti "disturbi". La speranza diviene quella di poter controllare un corpo che lancia segnali inspiegabili e che appaiono come condizione di anormalità da correggere, o perlomeno da riuscire a controllare: ma é proprio questo rapporto di controllo che diventa un invito ad effettuare una diversa lettura, una lettura dell’immaginario emotivo; una lettura che rimanda ai propri modelli di costruzione delle relazioni.

Se si pensa ai motivi che portano al diffuso uso di psicofarmaci in simili situazioni diventa chiaro come il senso della "malattia" sia identificata solo in modo negativo, inteso come un "non stare bene". In genere l’atteggiamento secondo cui le problematiche psicologiche possano essere risolte attraverso cure farmacologiche, può essere ricondotto ad una visione chiamata "riduttivismo biologico", intendendo in tal senso l’uomo nient’altro che una sommatoria di processi biochimici. Tale approccio svilisce tutta la dimensione umana ad un puro meccanismo di trasmissione di neurotrasmettitori e di reazioni organiche, chiudendo gli occhi sulla vita sociale dell’individuo. In realtà il non stare bene costituisce un segnale importante che ci avverte quando il nostro modo di costruire relazioni sia "segnato" da una possibile evoluzione ancora inespressa. Questo ci può far capire l’enorme differenza che intercorre tra il concetto medico del "curarsi", come valenza passivizzante del paziente, e il "prendersi cura di se stessi" del cliente in analisi. Bisogna allora comprendere che quando si ha a che fare con una "malattia" di questo tipo, significa che vi è la necessità di esplorare delle dimensioni relazionali che non abbiamo tenuto in considerazione, parti importanti di noi stessi di cui non abbiamo consapevolezza. È interessante notare anche come la parola ansia possa essere collegata etimologicamente alla radice tedesca Angst cioè "soffocare nelle strettoie" (Rollo May), perché ci fornisce un utile indizio nella formulazione di ipotesi relative alla comprensione della dinamica dell’ansia. Da un punto di vista psicologico le strettoie sono le strettoie del legame che si crea con se stessi e con l’altro e per essere più precisi con le rappresentazioni interne di ciò che ci portiamo dentro rispetto ai rapporti affettivi.

A questo punto sappiamo bene che le rappresentazioni interne non corrispondono alla realtà ma al modo in cui voi stessi interpretate la realtà; funzionano, per usare una metafora, come una bussola interna che utilizziamo per orientarci. Ed allora quando questa bussola è mal orientata si rischia di soffocare nelle strettoie non riuscendo ad riconoscere, accettare ed esprimere la nostra emozionalità. Quando soffochiamo la nostra individualità, il corpo ci viene in aiuto costringendoci a guardare dentro noi stessi, per essere ricondotti alla propria essenza. Per inciso, possiamo dire che tradurre in parole quello che avviene dentro se stessi non è un compito semplice come non è facile confrontarci con i propri limiti, o le proprie paure; quello che sospinge la persona ad affrontare un percorso del genere è la necessità di trasformare certe parti scisse e cristallizzate; per fare tutto questo si può riscoprire un coraggio insospettabile per la persona stessa: è un coraggio che proviene dalla capacità di evoluzione dell’essere umano, dal tendere alla costruzione della propria esistenza.

Lo psicologo che analizza la dimensione emozionale dell’individuo non fa altro che aiutare il cliente a cogliere il senso del linguaggio ricollegandolo alla sfera emotiva relazionale, per sviluppare nuove "categorie" più flessibili e utili. In questo senso il percorso terapeutico diviene un tramite per poter dispiegare aspetti della propria identità che ci erano nascosti ed azzardare nuove strade verso la comprensione della propria realtà psichica.

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